(Filippo Passantino /SIR, 25 giugno 2025) “Accompagnare i cammini delle comunità cristiane perché possano essere realmente oggi capaci di seminare speranza”. L’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, riflette sulla missione del vescovo in prossimità del Giubileo dedicato ai presuli, che si terrà il 25 giugno. Tornerà a Roma, dopo l’udienza dei vescovi italiani con Leone XIV, e attraverserà la porta santa assieme a tanti altri confratelli. Nella sua intervista al Sir, si sofferma in particolare sul tema della che lo anima: “Pellegrini di speranza”.
Per un vescovo il Giubileo quale significato assume?
La postura di un vescovo non può che essere già di per sé stessa giubilare, perché è colui che nella comunità che ha ricevuto, per la sua cura pastorale, tiene aperto il rotolo di Isaia, capitolo 61: “Lo Spirito mi ha inviato a portare il lieto annunzio, a dare la vista ai ciechi, a liberare i prigionieri, a proclamare l’anno giubilare del Signore”. È realmente una cifra portante per il ministero di un vescovo, a maggior ragione in un anno giubilare che Papa Francesco ha voluto nell’immagine di un pellegrinaggio, di un cammino di speranza. E anche qui direi che il compito di un vescovo è essere araldo di una bella notizia.
Qual è la speranza indicata come tema del Giubileo?
Il pellegrinaggio indica il fare strada insieme, percorrere il crocevia di incontri umani. La strada è il luogo di incontro, di cammino fatto in comune. La strada ha una meta, è anche fatica, è polvere ed è gioia. Credo che da questo punto di vista un pellegrinaggio nel 2025, in un momento così particolare della Casa Comune, responsabilizzi ancor più le comunità cristiane a verificarsi attorno proprio alla missione che hanno ricevuto dal Signore.
Ma la speranza nel momento storico attuale soffre…
È un Vangelo che si incarna nella vita degli uomini che oggi rischiano di essere invece privi di speranza per la disgregazione che sempre di più vive la Casa Comune, fino alle barbarie delle guerre che la stanno infiammando. “Pellegrini di Speranza” significa che oggi noi cristiani dobbiamo avere la gioia di un Vangelo che deve arrivare anche come parola che entra nei cuori degli uomini, anche con audacia.
Per questo motivo, noi non dobbiamo avere ulteriore consapevolezza, dobbiamo essere annunziatori, seminatori di speranza perché siamo animatori di unità, un mondo infranto, e siamo animatori di comunione. Se la Chiesa non è sinodale, se la Chiesa non è cammino insieme, è chiaro che rischia di essere come il sale che perde il sapore.
Come vive il suo ministero episcopale?
Ogni giorno mi pongo la domanda se, prima di ogni cosa, sto fidandomi del Signore. Il tema della speranza è legato a quello della fiducia. Il Signore diventa forza nella prova, capacità di saper individuare la via nonostante i segni del travaglio di una Chiesa locale che ha le possibilità e la complessità della Chiesa di Palermo.
Da vescovo lei si è impegnato in prima linea sul tema delle migrazioni. Che in Sicilia è un tema particolarmente sentito…
Sì, intanto non si tratta di uno sbilanciamento di ordine solo sociologico. Non è solo una questione di sensibilità sociale. Se io sono banditore del Vangelo di Gesù, è chiaro che al cuore del Vangelo di Gesù c’è il far propria la sofferenza degli altri. Vivendo il mio ministero su questa zattera che è l’isola Sicilia, che galleggia proprio sul Mediterraneo, ci sono alcuni segni che io non posso non riconoscere. Deve essere una zattera che salva, di approdo, e quindi mi faccio interpellare dal segno dei tempi che sono le migrazioni. Non sono un’emergenza. Sono segno di un mondo soprattutto dalla parte dell’Occidente che crea, genera guerre, povertà e cambiamenti climatici con lo stile di vita che i pochi conduciamo e che hanno delle influenze sui tanti altri.
Altro tema il supporto a un disegno di legge, nato dal basso, contro le tossicodipendenze…
È il grido dei giovani. A Palermo, in questo momento, ma anche in tutta la Sicilia, sappiamo che è in auge di nuovo una vera e propria industria delle nuove droghe, degli stupefacenti, che ormai diventano sempre di più diffusi in forma massiccia. Soprattutto presso i giovani, ma non solo, perché qui c’è una crisi anche di noi adulti. E sappiamo che tra l’altro anche le organizzazioni mafiose stanno, impiegando energie sul fronte degli stupefacenti, delle nuove droghe.
Il crack che è sempre più diffuso…
Con tutto quello che comporta. La disgregazione, soprattutto mentale, valoriale, del sentire delle nuove generazioni, ma poi tutto l’indotto anche che questo comporta, dall’aggressività alla violenza, allo spaccio. Per alcune famiglie diventa l’unica opportunità lavorativa. Le istituzioni nefaste, mafiose, si sostituiscono a quello che è il compito delle istituzioni, per offrire il lavoro, la casa, il pane. Addirittura oggi in alcune famiglie si tagliano le droghe, si mandano i bambini a fare i pusher, gli spacciatori, per cui da qui deriva quell’appello, e non può non essere anche della comunità cristiana, in una realtà che si è creata, di associazioni non solo cattoliche, ma proprio di presenza anche civile, e di associazioni cattoliche.
Un appello diventato legge regionale…
Siamo arrivati addirittura a formulare una proposta di legge per la prevenzione, la cura delle dipendenze, di tutte le dipendenze, certamente da droghe a quella ludica. È chiaro che è un segno che vogliamo porre per una adesione ai bisogni concreti che ha la nostra isola, che ha la nostra gente. Penso che i segni che riguardano giovani e migranti siano segni dei tempi: perché i giovani hanno una ricchezza che dobbiamo custodire, valorizzare. Se dimentichiamo poi che ogni essere umano ha una dignità che deve essere riconosciuta prima della sua appartenenza, della sua cultura, della sua religione, è chiaro che non ci dobbiamo meravigliare se oggi cresce una cultura della morte a causa dell’idolatria del profitto.